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"Gruppo 12: un Autoritratto collettivo, molto molto personale"

 

Di Marco Nocca 

 

Che cos’è l’autoritratto per un artista, se non la forma più alta di sintesi tra il proprio sguardo e l’immagine di sé che si vuole presentare al pubblico?

C’è nell’autoritratto un insieme complesso di moventi: l’autocelebrazione, attuata per il riconoscimento da parte di un gruppo sociale (gli altri artisti, gli amatori,i critici,i collezionisti,i semplici curiosi,il pubblico vasto); la sfida dell’artista (un po’ guascona) verso sé e il mondo, di rappresentare il proprio ego e il proprio stile come insuperabili, unici, riconoscibili nell’immediato e indissociabili l’uno dall’altro; il voler prendere parte alla propria opera (pensiamo a Michelangelo che si autoritrae nel San Bartolomeo del Giudizio Universale, a Raffaello di profilo affianco ai portantini della sedia gestatoria di papa Leone X nella Messa di Bolsena, ma anche ad Hitchcock che non può fare a meno di entrare-anche solo per qualche istante-nei suoi film); il riconoscere il primato della visione (quindi del proprio mestiere di “artista visivo”) sulla parola, come nello splendido autoritratto di Salvator Rosa, condito dalla magnifica sentenza “O taci, o, se parli, dì qualcosa che sia migliore del silenzio”; il rivelare la maestria tecnica nell’opera segnalandone la finzione –Van Eyck che si raffigura intento all’opera nello specchio alle spalle dei Coniugi Arnolfini, o Velazquez che si autoritrae mentre dipinge Las Meninas.

Il Novecento rompe gli schemi della comunicazione solita al sistema dell’arte ,dunque anche dell’autoritratto come genere: il peccato originale di Duchamp (un oggetto comune che attraverso il gesto diviene materia dell’arte), la voce delle avanguardie, il ruolo della psicoanalisi portano in primo piano l’ego dell’artista, trasferendolo DENTRO l’opera.

Quest’ultima diviene così l’immagine stessa dell’artefice e della sua poetica. La stessa cosa avviene in letteratura, dove il narratore definisce il personaggio non attraverso una plausibile descrizione esterna, ma prestando ascolto al flusso di coscienza che proviene dal suo Io.

E’ in quest’ultimo senso, ben dentro la contemporaneità, dunque, che va intesa l’operazione di Autoritratto: una mostra d’arte contemporanea nata dalla volontà unanime di dodici allievi (GRUPPO 12) della scuola di Scultura di Ciriaco Campus dell’Accademia di Belle Arti di Roma.

L’operare in gruppo, piuttosto raro nella pratica odierna del sistema delì’arte, implica una condivisione di obiettivi e di modalità operative. Comune a tutti i giovani artisti in questa uscita pubblica è l’interrogarsi su se stessi attraverso l’ opera, che fornisce dati-rielaborati simbolicamente in quell’ambiguità dell’arte, che è sostanza dei sogni e degli dei- sulla propria idea di relazione tra sé e il mondo, tra arte e pubblico, tra oggetto d’arte e suo fruitore.

Così, Laura Giovanna Bevione (1969 ) nel suo Autoritratto propone un’opera che alterna su due facciate, attraverso il giro di una manovella offerta allo spettatore, un’immagine di mamma (composta in un plasticismo di magna mater mediterranea) a quella di un trattore giocattolo (chiara allusione alla sua determinazione e al suo ruolo professionale). In Diversa-mente Ri-flessi Francesca Checchi (1973),adusa ad esperienze di relazione con musica e poesia, presenta un’ installazione che ci invita a guardare “diversa-mente” la realtà, composta dalle centinaia di visioni scaturite da cristalli rotanti illuminati, e da paesaggi sonori che richiamano lo stupore dell’infanzia.

In Voglio diventar del mondo esperto Domenico Cornacchione (1984) esterna concettualmente, iscrivendola su una base azzurra, la volontà programmatica che Dante mette in bocca ad Ulisse nell’Inferno, rappresentando quel mondo al di sopra come un ammasso caotico e informe di fili di ferro: un Caos da dipanare, come per l’eroe omerico, con i suoi intrichi di vizi e virtù, e una metafora della sua ricerca artistica. Aldisio D’Elia (1952),con esperienza di architetto e dirigente d’azienda, propone una riflessione sull’identità, divertendosi a mettere in scena nel suo Autoritratto un “teatrino dell’Io” fatto di due oggetti diversi, velati da uno strato di smalto bianco che li eterna: da un lato il rispettabile completo da funzionario dell’architetto D’Elia; dall’altro i pantaloni e la camicia di Aldisio nel suo tempo libero.

Ne La pelle che abito Simone De Santis(1987)riflette,attraverso un’installazione composta da materiali raccolti nei boschi della Tuscia,e ripresa da una videocamera, sull’identità nel quotidiano: l’artista diviene spettatore, rigettando la facile estetica dell’apparire e liberando lo spirito in una attività che ponga il Pensiero al centro dell’Essere. Più legato ad una ricerca tradizionale del genere pittorico è Autoritratto n.87 di Mohammadjavad Hosseinkhani (1981),iraniano, in cui è evidente la volontà di rappresentare materialmente, dentro i limiti del ritratto figurativo ad olio, la componente pulsionale, inconscia, immateriale del soggetto, che fuoriesce dai confini del volto attraverso pennellate violente, dense come colate di lava. Antonella Nardi (1973) propone nel suo Self-portrait una scatola di plexiglass: all’interno un autoritratto inciso all’acquaforte si sovrappone a un “Blind Drawing” alla Morris, e a numerosi altri disegni, impilati l’uno sull’altro: una metafora dell’identità, che si costruisce attraverso la stratificazione dei ricordi, organizzati dalla memoria, in un processo biologico,che attraverso la carta qui rimanda al tronco, accresciuto nella corteccia anello dopo anello. La bella testa di Donna che esce dall’acqua di Daniela Polese (1974),scultura in argilla cruda, rimanda di prim’ acchitto ad una tradizione iconografica classica di Veneri che fuoriescono dal mare: se non fosse che la sua autrice, psichiatra e psicoterapeuta oltre che pittrice, cerchi forse in essa una ridefinizione attraverso la pratica dell’Arte, grazie a cui uscire dal liquido amniotico di una Identità in via di compiersi. Soltanto ad una analisi molto attenta e ravvicinata dell’Autoritratto-Ritratto di Amedeo Porru (1992) riusciamo a scorgere l’accenno ad una silhouette di figura umana, occhieggiante all’interno del mosaico di listelli di gesso,tenuti insieme dallo spago,e ricavati da una forma in argilla poi distrutta:un’identità decostruita e caleidoscopica,che parla in modo non univoco attraverso le sue parti. Pietro Sabatelli (1979),belga, propone come suo Autoritratto, una scultura volumetrica astratta in gesso/cemento incentrata sulla dinamica pieno-vuoto, equilibrio-disequilibrio. La sua rappresentazione geometrica, potentemente simbolica, rimanda in realtà ad un paesaggio metafisico, abitato da un’anima e dalle sue tensioni, in lotta con il mistero della vita. Giuliana Silvestrini, “Siscia” (1951) si muove nell’ Autoritratto sul tema della rottura e sedimentazione dell’ego nelle sue varie parti.

A questo sembrano alludere i vari frammenti materici (sorprendente scoprire che siano di pane secco colorato),racchiusi in una gabbia che è anche metafora della prigionìa costituita dalla rigida identificazione del pane con il lavoro, che l’artista può forse voler recuperare come memoria familiare trasfigurata.

In Trasparenza e densità Maria Beatrice Tabegna (1961) posiziona una figura femminile in cera scura, avviluppata in un moto serpentino, al centro di una serie di quinte, con disegni dello stesso soggetto a grafite su carta lucida. Le relazioni instaurate tra scultura e disegni, il variare dell’intensità figurativa, nel passaggio da trasparenza a densità della forma, alludono di certo ad una condizione dello sguardo sull’Io: al concentrarsi nelle emozioni dei grumi densi di esistenza, al distendersi nella leggerezza delle sensazioni più volatili.

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